domenica, maggio 07, 2006

Numeria


Sono nata in un giorno d'inverno a Diara, nel 27aa, di famiglia umile.
Mia madre è morta per complicazioni durante il parto e non l'ho mai conosciuta, a crescermi è stato mio padre, il falegname del feudo, con tutto l'amore e la saggezza di cui era capace, divenendo per me l'uomo migliore che abbia mai incontrato.
La mia infanzia rimane nei miei ricordi come il periodo più felice della mia vita al quale però guardo con tristezza; non solo perché so che non potrà mai ritornare, ma anche perché vedo nella mia figura di bambina una immagine di me che è morta, affogata nel sangue che ho versato e nelle lacrime che ho trattenuto.
Quando ero piccola, così dolce e minuta con i miei capelli raccolti nella pezza e con i miei grigi vestiti di stoffa, ero considerata da tutti un fresco vento primaverile per la mia giovialità, tanto che i più anziani si divertivano a chiamarmi "brezza d'inverno", vista la contrarietà della mia natura giocosa con il rigido inverno nel quale ero stata generata.
Correre per i campi, scavalcare staccionate e arrampicarmi sui tetti erano le uniche cose che facevo durante la giornata, fino a quando per la prima volta mio padre mi portò in un tempio di Antlas.
"Ogni giovane albero cresce bene se tenuto eretto" amava ripetere nel chiarire l'importanza di una giusta religione, ed io non l'ho mai dimenticato.
Quando entrai per la prima volta in quel sacro e magnifico edificio al quale tutti si rivolgevano per trovare aiuto e conforto, provai un enorme senso di rispetto e completezza; potevo sentire la grande forza di ciò che quel luogo emanava, come se l'aria intorno a me avesse preso vita e mi stringesse con amore tra le sue immense mani.
Con il tempo, ogni giorno che passavo tra i miei giochi e le mie corse, trascorrevo sempre del tempo alla chiesa di Antlas, ammirandone ogni angolo più nascosto, sentendo sotto i miei piedi nudi il freddo del suo pavimento, osservandone i sacerdoti eseguire i loro compiti con la devozione di chi compie qualcosa di grandissima importanza, fosse anche stato il lavare il pavimento o preparare le funzioni.
Ma la cosa che più affascinava la mia mente da piccina, erano i paladini.
Nelle loro bianche armature laccate a volte di blu, a volte di oro; con le loro armi lucenti ed il loro sguardo severo ma giusto.
In loro riconoscevo lo spirito e l'anima di mio padre, la sua saggezza unita alla forza e la volontà dei sacerdoti, con la fierezza dei più grandi cavalieri.
Ogni due settimane un gruppo di paladini faceva visita al tempio, e ben presto mi accorsi di aspettare tale evento per tutti i quindici giorni di attesa, trepidante ad immaginare quali mantelli avrebbero portato, quali spade e armi e scudi avrebbero esibito.
"I paladini sono le braccia e le gambe del Dio" mi diceva mio padre.
Poi crebbi, come ogni cosa su questa terra, e venne il giorno in cui non potei più correre a perdifiato nei boschi, o assaporare le mele dall'albero mentre danzavo la notte; venne il giorno del mio primo sguardo.
Anche nel mio piccolo feudo, tale tradizione era molto rispettata, e dovetti scoprirmi non soltanto nei riguardi della società, quanto verso me stessa. Per la prima volta vidi quanto potevano essere belli i mei capelli di fuoco, e quanto fossero lunghe ed apprezzate le mie gambe.
Potevo notare gli sguardi dei ragazzi del feudo cambiare , i loro modi mutare da normali a troppo gentili, le reazioni della gente farsi strane, ambigue, curiose.
Nella mia adolescenza tutto ciò che mi piaceva fare era in qualche modo proibito, oppre inappropriato. L'unica cosa che ancora mi rimaneva era il tempio, nella sua immutabilità.
La mia curiosità divenne devozione, e alla passione per la struttura della chiesa prese posto l'interesse per le meccaniche e le liturgie che essa rispecchiava.
All'età di vent'anni, potevo recitare ogni formula ed ogni funzione riguardasse Antlas così come l'avevo sentita dai chierici, e tutti mi riconoscevano come la più pia del feudo, tanto da ritenermi già una qualche sacerdotessa.
Mio padre intanto invecchiava, ma io continuavo a trovare più stimolante la sua guida che non quella della chiesa, nonostante queste molto spesso fossero simili, se non addirittura identiche. Ma mio padre era diverso nel profondo, dove la chiesa metteva dogmi lui metteva concetti, dove i chierici parlavano di Dio lui parlava di natura e del mondo, e tutto ciò mi affascinava sempre di più.
Nell'anno 5aa ormai ero una donna, ed ero pronta a scegliere la mia strada.
Nonostante tutti mi vedessero come una sacerdotessa già formata, io comincia ad allenarmi di notte con mio padre e le sue armi di legno, per superare le prove di ammissione dei "Cavalieri della luce". Il giorno del mio esame, mio padre mi portò con il carro al campo di addestramento e mi sussurrò all'orecchio:
"Per essere dei paladini, non servono nè muscoli nè cervello, ciò che serve è il tuo spirito. Combatti con il tuo spirito, e vincerai tutti, senza tuttavia far perdere nessuno"
Quelle parole furono una guida per me, che entrai nell'ordine senza nessuna sconfitta; e lo sono tuttora, quando lo spirito è l'unica cosa che mi rimane.
Passai gli anni successivi addestrandomi come paladina, e le mie buone qualità strategiche unite alla mia conoscenza della chiesa mi permisero di avere una cariera veloce.
All'età di 26 anni ero già in un gruppo d'elite composto da soli dieci paladini.
La mia felicità era alle stelle, e la mia vita era esattamente come la immaginavo nei miei sogni di bambina, quando aspettavo con ansia il corteo dei paladini nel campo del tempio.
Dopo battaglie e servizi fuori dai feudi, per la prima volta dopo tanto tempo stavo tornando al mio paese natale, a mostrare a tutti quanta strada avessi fatto e a riabbracciare mio padre, quando il nostro comandante venne colpito da un attacco di cuore. La sua veneranda età comunque rasserenava i nostri cuori, consci della fiera vita che egli aveva condotto, ma l'ordine si trovava in assenza di un comandante, proprio alla vigilia di incontri politici importanti che avrebbero fatto accrescere il nostro gruppo in popolarità e potere.
Con mia somma sopresa, i miei compagni designarono me come comandante temporaneo, in attesa di riconferma quasi sicura.
Una volta giunti al mio feudo, la mia felicità era aumentata a causa della mia recente promozione, ma tutto venne spezzato nell'apprendere che mio padre si era ammalato di polmonite, e che non avendo nessuno ad accudirlo, non avrebbe superato i primi giorni d'inverno.
Subito mi mossi in suo favore presso il tempio, spiegando quanto fosse devoto mio padre e quanto il suo lavoro aveva contribuito al crescere del feudo, e promettendo favori e fedeltà per chi gli avesse prestato aiuto, sia in forma economica per le sue cure, sia in forma fisica per cui venisse accudito come si conviene.
Tutto mi fu negato.
L'ordine dei paladini era la mia vita, ma mio padre era ciò che di più importante avessi al mondo, e la mia decisione di dimettermi per stargli al fianco fu immediata e senza rimorsi.
Non avevo idea della tempesta che avrei provocato con un simile gesto: Per il tempio era semplicemente inammissibile che un comandante di elite si dimettesse alla vigilia della sua graduazione, senza contare che avrei lasciato il gruppo senza una guida politica.
Ma altre trame giravano intorno alla mia persona, trame che capisco in parte solo adesso.
Una donna di umili natali come me era necessaria in quel ruolo di comando, perché ai loro occhi io ero altamente manipolabile. Con il mio rifiuto, il mio più quotato sostituto veniva designato dal reggente stesso, in tal modo ad uno dei posti di comando del tempio si sarebbe posizionata una potente pedina esterna.
Ma tutto questo non era nella mia mente quando con i miei vecchi abiti di stoffa correvo verso la mia casa con l'acqua per la fronte calda di mio padre. Nella mia mente c'era solo disperazione quanto vidi i briganti dal volto coperto estrarre la daga dalla gola aperta del mio genitore. Non ricordo cosa feci o cosa provai, nella memoria ho solo immagini confuse di un uragano nero, un pozzo senza fondo nella quale la mia mente moriva.
Tornai in me stessa solo quando rivelai il volto di uno dei briganti morti, scoprendo con orrore che si trattava di uno dei miei ex compagni.
Capì allora che solo con la morte di mio padre io avrei sicuramente scelto di tornare al mio posto, e così tutto le mie certezze, tutta la fierezza di essere stata una paladina esplose dentro di me, lasciando posto solo ad amarezza e disprezzo.
Quegli uomini non avevano soltanto ucciso l'unica persona che io amassi al mondo, ma anche la mia ragione di vita, i miei scopi, i miei sentimenti ...
Quella fu una notte di sangue, di gole tagliate e di teste mozzate.
Uccisi sotto la doccia, nel sonno, sul tavolo da pranzo. Uccisi senza onore perché in quel luogo l'onore non c'era, ma solo morte e veleno.
Uccisi tutti i paladini ed i chierici che incontrai, dal lava-pavimenti fino al priore che probabilmente aveva architettato tutto, e poi fuggi.
Sono passati solo pochi mesi da quell'evento, e tutt'ora vago ramminga tra le terre del Fiume rosso, senza una meta precisa, schivando le grandi città per paura delle milizie, dormendo nei boschi e sforzandomi di riflettere sull'unico quesito che ancora mi anima:
"Cosa posso fare ancora io, nel mondo ?"

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