mercoledì, aprile 01, 2009

Fuga

Le dita scorrevano a gran velocità sopra l'umida pietra di quel corridoio sotteraneo dal quale
Jennie stava fuggendo.
La sua cecità non era mai stata un intralcio come in quel momento. Si era sempre ripetuta di poter avere una vita normale, di essere una persona come tutte le altre, ma come prigioniera non poteva ignorare di essere facile preda dei suoi aguzini più di altre ragazze della sua età.
Le dita continuarono a contare gli incavi che intercorrevano tra una roccia e l'altra, disegnando
il tragitto che l'avrebbe portata verso le scale. Ancora cento passi e le sue chance di scappare
sarebbero aumentate notevolmente.
Un rumore sinistro la fece istintivamente voltare indietro. Era buffo come il suo corpo rifiutasse la menomazione, costringendola ad usare gli occhi consapevole che sarebbe stato inutile.
Si voltà di nuovo e si impose di non smettere di camminare.
Una grata si aprì emettendo un sinistro stridio. Altre incavi pieni di muschio ed insetti si susseguirono ancora. Jennie smise di contare i passi, quelli che contava adesso erano i battiti del suo cuore.
Nessuno la richiamava indietro, nessuno correva a dare gli allarmi. La grata poteva essersi aperta per puro caso, uno scherzo beffardo del destino che si divertiva con semplici giochi di vento alle spalle di una povera invalida spaventata.
Il terreno irregolare quanto le pareti si fece colpire dal passo incerto della ragazza, provocandole dolore all'alluce sinistro. Per un attimo incerpiscò su sé stessa, rischiando di cadere.
Jennie portò tutta la sua attenzione al proprio equilibrio. Non doveva sbilanciarsi. Una persona normale si sarebbe rialzata immediatamente, ma le gambe li dolevano ancora per le ferite, e se avesse perso il contatto con le pareti, avrebbe potuto perdere la giusta direzione.
Per non rovinare a terra, decise di fermarsi.
Il silenzio intorno a lei era tornato assoluto. Se la grata si era mossa, ora si trovava immobile dietro di lei.
Il suo orecchio si tese nel cercare segnali della presenza dei suoi carcerieri.
Si diceva che la perdita di un senso rendeva più aquti gli altri, ma lei non lo sapeva. Lei era cieca solo da qualche tempo.
Un fastidioso ronzio interruppe i suoi timori. L'unica a raggiungerla era stata una stupida zanzara, ancora non sazia del sangue che aveva già versato.
Riprese a camminare.
Il muro scorreva senza incertezze adesso. Il malfatto mosaico di rocce e pietra aveva lasciato spazio a pareti ben levigate, scavate nella terra con una certa maestria.
Questo la infastidì oltremodo. Non ricordava un simile cambiamento e dentro di lei nacque il dubbio di aver in qualche modo sbagliato strada.
Com'era possibile ?
Seppur fosse trascorso del tempo, più e più volte era stata trascinata attraverso questi luoghi. Le segrete nel quale era stata rinchiusa avevano sbucciato le sue ginocchia, contuso le sue braccia.
Se avesse potuto vedere, era convinta che molti di questi spazi erano tinteggiati del suo sangue rappreso e delle sue lacrime versate in silenzio.
Possibile che questo luogo la tradisse ancora ? Che l'infierire sulla sua persona soddisfasse
la sua prigione quanto i suoi guardiani ?
Poi la sua mano si scontrò con del legno, ed un oggetto di una certa grandezza cominciò ad ondeggiare alla sua destra. Si trattava di un piccolo quadro incorniciato.
Provo a ricordare cosa raffigurasse, ma niente.
Jessie decise dentro di sé che anche se avesse sbagliato tutto, anche se si stesse dirigendo verso
la sua stessa tomba, per nulla al mondo sarebbe tornata indietro.
Che il suo destino fosse di riveder la luce o di sprofondare ancor più nelle tenebre, esso si sarebbe compiuto quel giorno, per sua scelta.
Proseguì.
Passi incerti mossi l'uno dopo l'altro la fecero giungere ad una curva a sinistra. Il calore delle torce appese alle pareti le rammentava ancora una volta i limiti della sua condizione.
Chiunque avrebbe potuta vederla, osservarla incerpicare ed arrancare verso false speranze di libertà.
Un rumore sottile, tanto silenzioso da far accapponare la pelle le fece immaginare un passo strusciato proprio dietro di lei. Ancora una volta il suo istinto rispose, facendola voltare di scatto.
Il silenzio era tornato, pronto a celare ogni cosa sotto il suo manto di velluto nero.
Se qualcuno la stava pedinando, altro scopo non poteva avere se non di riportarla indietro.
Prendersi il disturbo di seguirla di nascosto ridicolizzava la sua volontà di fuga.
Così comica per i suoi aguzzini doveva essere, tanto vulnerabile da suscitare ilarità.
Dopo sessanta battiti, ancora niente. Jessie proseguì ancora.
La sua mano lasciò la parete e si agitò nel vuoto.
Abbassandosi sulle ginocchia, le dita incontrarono i tanto desiderati scalini. Un sorriso si formò a forza sul volto stremato della ragazza.
Procedendo a tentoni, Jessie iniziò a salire le scale. Alcune lacrime le rigavano le guancie e lei si stupì di trovare nei suoi occhi un'utilità ancora tanto grande.
Passo dopo passo, il calore del sole che doveva penetrare nella tromba le scaldava la pelle in modo differente dalle fiaccole alla quale era abituata.
I suoi capelli biondi parvero riprendere vita a contatto con un'aria più pura, ed una volta arrivata all'esterno, una boccata di freschezza le riempì i polmoni, alimentando un urlo silenzioso che avrebbe potuto scuotere il mondo intero.
Intorno a lei immaginava un grande prato verde, una distesa infita e perfetta di vita e natura, che solo lo sguardo della sua mente portava fino alle montagne innevate, oltre l'orizzonte.
Suoni di uccelli nascosti tra gli alberi arrivò alle sue orecchie abituate ad urla e dolore. Una nuova umidità accarezzava la sua pelle proveniente dalla rugiada sull'erba dopo una pioggia d'estate.
Jessie liberò quel sorriso che ostinato voleva uscire. Poi il tocco pesante di una mano l'afferrò per la spalla.

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